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“L’apparizione” di Gustave Moreau

"L'apparizione" di Gustave Moreau

Al centro di una sala dello straordinario palazzo di Erode, appare una visione terrificante alla principessa Salomé: la testa decapitata di Giovanni Battista. L’episodio biblico narra che Salomè, figlia di Erodiade e di Erode Filippo, innamorata del cugino di Gesù, Giovanni Battista, ma non ricambiata, in occasione di un banchetto ottenne dal re Erode, come macabro premio per aver danzato, proprio che l’asceta venisse decapitato. Nel dipinto la testa mozzata del santo, aleggia livida, gettando un’ombra nera sul pavimento, con il collo grondante di sangue, in parte rappreso nella barba e nella punta dei capelli, scrutando con gli occhi sbarrati Salomè. E’ circondata da un’aureola che sprigiona fasci di luce molto luminosa, che si irradiano illuminando l’interno del palazzo, quasi accecando la danzatrice che, atterrita, inclina la testa, volendo respingere l’allucinante apparizione che la inchioda a terra. Con la mano sinistra completamente distesa, punta, con gesto coreografico, il dito verso il santo, quasi per esorcizzare l’apparizione, oggetto del suo odio e al tempo stesso della sua attrazione. Il braccio destro è ritratto e nel pugno stringe un fiore di loto. Il suo corpo adolescente è quasi nudo eppure carico di ornamenti: gioielli e pietre preziose, le cui superfici, colpite dai raggi di fiamma emanati dalla testa mozzata del santo, sembrano ardere intensamente. La testa dell’asceta per altro è visibile solo per Salomè: dietro di lei, ignari di quanto sta accadendo, a mala pena si scorgono gli altri personaggi, nascosti nell’ombra del palazzo, ovvero Erodiade, madre di Salomè, che ha appena saziato il suo odio, ed il sovrano Erode, torreggiante sul trono regale. A destra, una guardia reale velata fino agli occhi, statuaria, con una lancia in pugno e addosso una tunica arancione e rossa, se ne sta ritta sull’attenti, osservando dritto davanti a sé, con lo sguardo immobile, non potendo anch’essa vedere l’apparizione. Sullo sfondo si ergono le massicce colonne del palazzo, con una serie di capitelli molto complessi stilisticamente e nell’intercolumnio si colloca un tempietto orientale, con una scalinata. Vicino ad esso si possono vedere delle statuette di animali. Il pavimento è ricoperto di tappeti sontuosi e in parte anche da fiori.

Moreau non ha voluto semplicemente rappresentare una scena appartenente alla tradizione biblica: in questa sua apoteosi di un’epoca lontana, come dice il decadente Huysmans, l’immagine perde ogni riferimento con la realtà e diviene veicolo di espressione del pensiero, di uno stato d’animo, del mondo interiore. L’immagine della testa del santo quindi, non vuole riecheggiare l’episodio della decapitazione in sè, ma essere simbolo, materializzazione del senso di colpa che torna ad ossessionare Salomé e che l’inconscio proietta esteriormente sotto forma di visione onirica. Quanto alla bella figlia di Erode, personaggio molto ricorrente nelle opere di questo autore, essa non è più semplice oggetto del desiderio maschile, ma diventa simbolo del binomio romantico di eros e thànatos, seduzione e autodistruzione, è la femme fatale, sensuale e al contempo satanica, che incarna nella propria bellezza femminile, esaltata dalla preziosità dei gioielli e degli abiti, il male, la morte, la perversione. In tutta l’opera serpeggia un senso di erotismo carnale, tratto dal Romanticismo, che è quasi raggelato in una pittura contemplativa, asessuata: le figure dipinte da Moreau sono per lo più indistinguibili nei i caratteri sessuali, ma anche nell’età. La stessa Salomè, come la donna di Baudelaire e di Huysmans, è androgina, “mineralizzata”(Bruno Nacci, Massimo Colesanti ).

Nella composizione dell’opera prevale la staticità; i due soggetti principali (Salomè e Giovanni battista) sono inscrivibili in un triangolo che occupa la metà del quadro e che è l’unica parte del dipinto ad essere fortemente illuminata: il resto si confonde nei contrasti chiaroscurali ; i colori predominanti sono il rosso scarlatto (simbolo del sangue, della morte) e il dorato (che richiama l’universo onirico, ma anche un qualcosa di negativo e relativo alla sfera interiore dell’uomo, se lo intendiamo come contaminazione del bianco, colore dell’innocenza); i contorni sono abbastanza ben definiti nella scena dell’apparizione, poi sfumano in uno scenario suggestivo,denso di colori cupi, in cui l’artista ha inciso un’architettura indecifrabile dal punto di vista stilistico, dove si amalgamano figure di mostri pagani, divinità orientali, animali egizi, santi cristiani. Tutta la composizione rimanda ad un gusto per le civiltà lontane, arcaiche e orientali, testimoniato dallo studio da parte dell’autore di ogni minimo particolare decorativo, per realizzare il quale si è avvalso di vari repertori archeologici ed etnografici “cari alla cultura del suo tempo”. Se le sue prime esperienze pittoriche furono classicheggianti, dopo il 1870 il suo stile subisce una svolta e sono molte le sue opere ad avere caratteristiche simili al quadro de “L’apparizione”: figure mitologiche, bibliche e letterarie inserite in ambientazioni sature di elementi simbolici, che trascendono la realtà, concepite al di fuori del tempo, delle epoche e come connubio di più culture. Se confrontiamo quindi la pittura di Moreau con altre produzioni a lui contemporanee (il Realismo e l’Impressionismo, entrambi i quali riproducono con esattezza naturalistica la realtà circostante o le impressioni avute dalla percezione ottica, e di cui il Simbolismo era l’antitesi), notiamo subito qualcosa di estremamente innovativo per l’epoca, come sottolineava d’altra parte lo scrittore Huysmans in À rebours : “(…)la verità è che Gustave Moreau non derivava da nessuno. Senza un vero maestro, senza possibili discepoli, restava unico nell’arte contemporanea.(…)” La pittura di Gustave Moreau, il cui stile trae ispirazione in parte al tardo Delacroix e alla poetica “visionaria” di alcuni protoromantici del Settecento-Ottocento come Füssli, Blake, fondamentale per l’estetica decadente e simbolista, ma anche ispiratrice dei surrealisti(come Salvador Dalì e Max Ernst ), anticipa di almeno un decennio l’immaginazione degli artisti legati al Simbolismo, che vedranno in lui un precursore del loro movimento.
Negli ultimi venticinque anni del secolo, Moreau, “rinnova profondamente il proprio stile, sviluppando all’estremo i risvolti fantastici e inquietanti rintracciabili anche in soggetti classici o biblici.” Inoltre nell’ultimo periodo della sua vita, nominato nel 1891 professore all’Accademia di Belle Arti di Parigi, avrà tra i suoi allievi anche molti futuri esponenti del fauvismo, come Matisse.

« Credo solo a ciò che non vedo e unicamente a quello che sento. (Gustave Moreau) »

L’opera di Moreau pur non essendo coeva al Simbolismo, movimento artistico nato in Francia attorno al 1885, può inserirsi in questo filone artistico, per via delle numerose connessioni che lo legano ad esso e addirittura lo preannunciano. Il Simbolismo è considerato una delle più importanti correnti artistiche della fine del XIX secolo. La sua poetica, in netta contrapposizione sia alle poetiche naturalistiche e scientifiche del Realismo e dell’Impressionismo, costituisce un ponte tra l’Ottocento e il Novecento, influenzando e ponendo le premesse fondamentali alle Avanguardie del XX secolo. Secondo i simbolisti la pittura deve comunicare idee e stati d’animo ed esprimere la complessità del sogno, dell’immaginazione. La natura dev’essere reinterpretata dall’artista secondo la propria visione soggettiva e tra essa e il mondo interiore si possono ricostruire delle sottili corrispondenze, sotto forma di simboli. Il simbolo quindi è la parola chiave di questo movimento: compito dell’artista è quello di evocare le corrispondenze, i simboli che la natura racchiude e pertanto elabora un linguaggio nuovo, non più logico, ma analogico.

Nei simbolisti e in generale negli artisti della fine della seconda metà dell’Ottocento si manifesta un disagio nei confronti della società borghese emergente, che acclamava il trionfo della scienza, e di conseguenza una reazione a tutti gli aspetti ideologici, morali e letterali del Positivismo, corrente di pensiero che propugnava la scienza come fondamento di ogni forma di conoscenza. Questi artisti avvertivano infatti la crisi dei valori di fine Ottocento, sconvolto dalla Rivoluzione Industriale, dai conflitti di classe, da un progressivo scatenarsi degli imperialismi, da un’ostentata affermazione della superiorità dell’uomo bianco, dal decadere dei più nobili ideali romantici ; percepivano il fallimento del sogno più ambizioso del Positivismo: la persuasione che la scienza, distruggendo le “superstizioni” religiose, sarebbe riuscita a dare una spiegazione razionale ed esauriente del mistero della vita e avrebbe posto i fondamenti di una migliore convivenza degli uomini grazie alla forza illuminante ed assoluta della ragione, già emblema dell’Illuminismo. Viene manifestata, dunque, la sfiducia verso la scienza, la quale non è capace di penetrare nell’animo umano, né di spiegare i desideri dell’inconscio (quel mondo che Sigmund Freud esplorerà) e il bisogno per gli uomini di esplorare l’ignoto.

Gustave Moreau viene citato “come esempio irrinunciabile della pittura simbolista” da Joris-Karl Huysmans, “uno dei principali propugnatori del Simbolismo tra letteratura e arti visive”. Nel suo romanzo semi-autobiografico À rebours (Controcorrente ) del 1884, considerato il “manifesto” del Decadentismo europeo viene descritto nei minimi particolari il quadro “L’Apparizione”, in quanto opera molto apprezzata proprio per il suo simbolismo e la sua raffinatezza estetica dal protagonista Des Esseintes : “Il delitto era compiuto; ora il carnefice stava impassibile, con le mani sul pomo della lunga spada. macchiata di sangue. La testa decapitata del santo si era sollevata dal piatto posato sul pavimento e guardava, livida, con le labbra esangui, aperte, con il collo scarlatto, gocciolante lacrime. Un mosaico circondava il volto da cui si sprigionava un’aureola irradiandosi in fasci di luce sotto i portici. illuminando la spaventosa ascesa della testa, accendendo il globo vitreo delle pupille, fissate, quasi aggrappate alla danzatrice.
Con un gesto d’orrore, Salomé respinge la terrificante visione che la inchioda, immobile, sulle punte; i suoi occhi si dilatano, la mano stringe in modo convulso la gola.
E’ quasi nuda; nella frenesia della danza, i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti: è vestita solo di gioielli e lucidi minerali; un corpetto, come un busto, le stringe la vita e, a mo’ di superbo fermaglio, un meraviglioso gioiello dardeggia lampi nell’incavo dei seni; più in basso, una cintura le circonda le anche, nasconde la parte superiore delle cosce battute da un gigantesco ciondolo dove scorre un fiume di carbonchi e di smeraldi; infine, sul corpo rimasto nudo, tra il corpetto e la cintura, il ventre si marca, scavato da un ombelico il cui foro sembra un sigillo di onice, dai toni lattiginosi, dalle tinte d’un rosa di unghia.Colpite dai raggi ardenti emanati dalla testa del Precursore, tutte le sfaccettature dei gioielli s’infiammano; le gemme si animano. disegnano il corpo della donna con tratti incandescenti, la pungono al collo, alle gambe, alle braccia con aghi di fuoco, vermigli come carboni accesi, viola come getti di gas, azzurri come fiamme di alcol, bianchi come raggi di stelle.
L’orribile testa fiammeggia, sempre sanguinando, mettendo grumi di porpora scura alle estremità della barba e dei capelli.

Un altro riferimento letterario lo troviamo ne La strada di Swann, de La ricerca del tempo perduto, (La récherche du temps perdu, 1913) di Marcel Proust, dove il personaggio Odette ricorda al protagonista Swann “L’apparizione” di Gustave Moreau: “Un giorno che riflessioni di questo genere lo riportavano ancora al ricordo del tempo in cui gli avevano parlato di Odette come di una mantenuta, e una volta di più si divertiva ad apporre quella personificazione strana, la mantenuta, – miscuglio cangiante di elementi ignoti e diabolici, inghirlandato, come un’apparizione di Gustave Moreau, di fiori intrecciati a preziosi gioielli…

BIBLIOGRAFIA

Sul Simbolismo:

GUASTALLA  S., DIEGOLI  M., La nuova bottega dell’arte, Paravia Bruno Mondatori Editori, 2000.
AA.VV.L’enciclopedia, vol 18, Sante-Sped,  La biblioteca di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale  L’Espresso S.p.A.,Divisione La Repubblica, 2003.
AA.VV.L’enciclopedia tematica, Arte, vol 3, ORE-Z, L’Espresso Grandi Opere, Roma, Gruppo Editoriale  L’Espresso S.p.A., 2005.

Su Gustave Moreau e la sua opera:

GUASTALLA S., DIEGOLI M., La nuova bottega dell’arte, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000.

AA.VV.L’enciclopedia, vol 14, Mik-Niet, La biblioteca di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., Divisione La Repubblica, 2003.

COTTINO ALBERTO, DANTINI MICHELE , GUASTALLA SILVIA , La storia dell’arte, Grammatica dell’arte, Archimede edizioni, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2004.

AA.VV.L’enciclopedia tematica, Arte, vol 2, FIR-ORD, L’Espresso Grandi Opere, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A., 2005.

Fonti letterarie:

BAUDELAIRE CHARLES, I fiori del male, Roma, Newton & Compton Editori, 1998, introduzione a cura di Massimo Colesanti, traduzione italiana di Claudio Rendina.

HUYSMANS JORIS-KARL , Controcorrente, Roma, Newton & Compton Editori, 1998, introduzione a cura di Bruno Nacci, traduzione italiana di Ida Sassi.

Sitografia:

http://web.dsc.unibo.it/~ifabbri/ig/pittura.html


Già pubblicato su A Decadent Soul, 14 febbraio 2008.

Al nemico lettore

<<Del fiume assiro grande è la corrente, ma molte sono le impurità
e molto fango trascina nell’acqua.
Non da ogni parte a Demetra portano acqua le api,
ma quella che pura e incontaminata sgorga da una sacra fonte,
piccola stilla, limpidezza estrema.>>

(Callimaco, Inno ad Apollo, vv. 131-135)

Come ho già avuto modo di lasciar trasparire dalla citazione callimachea, vorrei che questo neonato blog possa essere l’acqua pura ed incontaminata che stilla da una piccola fonte da cui attingono le api per Demetra, preziosa a confronto dell’acqua fangosa e fragorosa del fiume assiro. Vorrei creare, pur in una cristallina bellezza, un’escrescenza mostruosa del mio pensiero, il prodotto ipertrofico di un’immaginazione che si espande come un cancro, un fiore che nel suo candido e caldo bagliore emana gli effluvi insani di un’incontrollabile exacerbatio cerebri
Vorrei un abisso dove far riposare gli affanni e le sofferte bellezze, un inferno per la collera, un inferno per l’orgoglio, e l’inferno della carezza; un concerto d’inferni.

Vorrei completare l’opera incompiuta con A Decadent Soul.

Per rendere più accessibili i contenuti del blog, cercherò di fare il possibile per fornire sempre una traduzione efficace e confacente in inglese e, se possibile, in altre lingue.

Il filo conduttore principale del blog, come anche del precedente, informale ed adolescenziale, sarà anche questa volta, ma non solo, il Decadentismo, Weltanschauung e corrente artistico-letteraria in cui mi identifico da sempre.

Spero, dunque, di riuscire a innervare la mia scrittura di stimoli tali da riuscire ad eccitare non tanto le corde del Vostro cuore o le fibre del Vostro corpo, quanto i Vostri nervi, i Vostri neuroni.

Prima di concludere, avendo inaugurato il blog con un’ “illuminazione” di Rimbaud, con la poesia che apre i Fiori del Male di Baudelaire, ovvero Al lettore, avverto tutti che tutto ciò che pubblicherò senza fonti e non come citazione è da considerarsi come mia proprietà intellettuale e pertanto protetto da copyright.

Ma non voglio tediarVi ancora.

La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia
occupano gli spiriti tormentando i corpi
e noi alimentiamo gli amabili rimorsi,
come i mendicanti nutrono i loro insetti.

Caparbi i peccati, fiacchi i pentimenti;
ci pagano lautamente le nostre confessioni,
e sul sentiero di fango ritorniamo lieti,
credendo che vili lacrime lavino ogni colpa.

Sul guanciale del male Satana Trimegisto
culla a lungo lo spirito incantato,
e il ricco metallo della nostra volontà
è svaporato da quel sapiente chimico.

Tiene il Diavolo i fili che ci muovono!
Scopriamo un fascino nelle cose ripugnanti;
ogni giorno d’un passo, nel fetore delle tenebre,
scendiamo verso l’Inferno, senza orrore.

Come un misero vizioso che bacia e morde
il martoriato seno d’una vecchia puttana,
noi rubiamo in fretta un piacere furtivo
spremendolo con forza come una vecchia arancia.

Come un milione di elminti, stipato, brulicante,
un popolo di Demoni fa bagordi nei cervelli,
e con il respiro scende nei polmoni,
fiume invisibile, la Morte, con lamenti sordi.

Se stupro, veleno, pugnale ed incendio
non hanno ancora ricamato con segni piacevoli
di pietosi destini il banale canovaccio,
è che l’anima nostra, ahimé! Non è troppo ardita.

Ma tra gli sciacalli, le cagne, le pantere,
le scimmie, gli scorpioni, i serpenti, gli avvoltoi,
i mostri guaiolanti, urlanti, grugnenti e striscianti,
nell’infame serraglio dei nostri vizi,

eccolo là il più brutto, il più immondo, il più maligno:
la Noia! Non si scalmana con gran gesti e grida,
ma farebbe facilmente una rovina della terra
e in uno sbadiglio ingoierebbe il mondo!

Ha l’occhio gonfio d’involontarie lacrime,
e sogna patiboli fumando la sua pipa.
Quel raffinato mostro, tu, lettore, lo conosci,
-ipocrita lettore, – mio simile – fratello!

[Charles Baudelaire, I Fiori del Male, Al lettore, Newton & Compton Editori, 1999 ed. it. a cura di Massimo Colesanti]

Aggiungo ancora che sono e saranno graditissime le Vostre segnalazioni, come suggerimenti per migliorare questo piccolo angolo fatale, ma anche correzioni di eventuali errori che mi siano sfuggiti.

Per il resto, ora mi ritiro nella mia torre d’avorio… Ma, caro Satana, ti scongiuro, uno sguardo meno irritato! e aspettando le ultime piccole vigliacchierie, tu che ami nello scrittore l’assenza di facoltà descrittive o istruttive, per te stacco questi pochi orribili foglietti dal mio taccuino di dannato.

H

Tutte le mostruosità violano i gesti atroci di Ortensia. La sua solitudine è la meccanica erotica, la sua stanchezza, la dinamica amorosa. Sotto la sorveglianza di un’infanzia è stata, in numerose epoche, l’ardente igiene delle razze. La sua porta è aperta alla miseria. Lì la moralità degli esseri attuali si scorpora nella sua passione o nella sua azione – O brivido tremendo degli amori novizi sul suolo di sangue e nell’idrogeno fosforoso! trovate Ortensia.

[Arthur Rimbaud, Opere, Illuminazioni, Feltrinelli, 2006, trad. it. di Ivos Margoni]

Cos’è il Decadentismo

“Il termine rappresenta ora una categoria che designa, in senso lato una visione del mondo, in senso specifico una poetica storicamente determinata, l’una e l’altra coscienti della <<decadenza>> di un mondo e intenzionate a rappresentarla nelle forme d’arte. Décadents furono detti dai critici tradizionalisti, con palese intento dispregiativo, alcuni poeti e letterati francesi, partecipanti, intorno al 1880, ai circoli bohémiens della parigina <<Rive Gauche>> (gli Hirsutes, gli Hydropathes, gli Zutistes, i Nous autres, ecc. ): poeti e letterati per i quali l’accusa degli avversari divenne motivo di vanto, etichetta di validità programmatica. Al concetto di decadenza si associò l’idea di un aristocratico distacco dal <<gregge dell’uomo comune>>, d’una superiorità culturale dove l’eccellenza artistica coincideva con un’esasperazione della sensibilità, acuita fino ad avvertire e ad assaporare le più remote e inconsuete sfumature delle sensazioni, i fremiti più nascosti legati alla suggestione dello strano, dell’inconscio, dell’ignoto. I princìpi della nuova poetica, erano propugnati su alcune riviste: <<La Nouvelle Rive Gauche>>, che nel marzo 1883 prese il titolo <<Lutèce>>; la <<Revue Indépendante>>; la <<Revue Wagnérienne>>; <<Le Décadent>>, apparsa nel 1886, anno di nascita del simbolismo. Le tappe più notevoli del movimento sono segnate dalla prima edizione dell’Art poétique di Verlaine (1883) e dalla pubblicazione di poesie di Rimbaud, su <<Lutèce>>, nella prima serie di Les Poètes maudits, curata da Verlaine; nel 1884, usciva il romanzo di Huysmans À rebours (A ritroso), il cui protagonista, Des Esseintes, era l’incarnazione dell’ideale di vita e del gusto decadente. Il D. affonda le radici nell’inquieta spiritualità romantica, gravitante su due poli antitetici: un’individualistica volontà di predominio dell’io sulla realtà naturale da un lato e un’ansia di annullamento mistico della personalità dall’altro. Su tale fondamento e sull’esperienza stilistica dei parnassiani matura il D., come concezione della vita e dell’arte commiste nella stessa unità in cui sensazione e rappresentazione, oggetto e simbolo si ritrovano indifferenziati; dominio della nuova sensibilità è il subcosciente (punto d’arrivo del misticismo romantico), zona inesplorata dello spirito, la cui interiorità sconfina nel mistero. Su tale via si chiariscono le più sicure prese di contatto del D. con il romanticismo; meglio che altrove nell’ambito della cultura tedesca, che aveva conosciuto gli slanci mistici della poesia di Novalis. Il sentimento dell’arte come contemplazione che beatifica e trasfigura in Schopenhauer, la <<volontà di potenza>> a cui Nietzsche assegna come meta finale il dissolversi dell’umano nel mito del superuomo; l’impeto wagneriano che trapassa dalla catena del sensibile delle emozioni all’ebbrezza dell’infinito: sono temi caratteristici della sensibilità decadente, e trovano esatte rispondenze nella poesia francese dell’epoca. La concezione wagneriana dell’inscindibile unità delle arti ha un preciso riscontro nell’idea centrale della nuova poesia francese: le correspondances, il reciproco interferire e confondersi di sensazioni eterogenee sul filo di misteriose analogie ed equivalenze. E’ infatti di Baudelaire, il poeta e critico la cui influenza fu decisiva per il nuovo indirizzo poetico, la scoperta delle segrete rispondenze che accomunano le diverse specie di sensazioni. Agiva in lui, soprattutto, l’esempio di Poe: d’una poesia di allucinata evidenza, scandita sul trascorrere mutevole delle impressioni; la raffinatezza espressiva del Parnasse gli serviva come mezzo d’attuazione della più squisita eleganza formale. Il sentimento della poesia come puro canto in Baudelaire si univa col fermo convincimento della connessione, dell’identità, quasi, tra arte e vita, che gli permetteva di immergersi nelle profondità più oscure del male per risalirne con la propria potenza creativa. Da lui i simbolisti ereditarono l’amore per la parola sorgente di magiche evocazioni, capace di crearsi una continuità indefinita di risonanze; e ancora prima, sulle sue orme, i decadenti ristabilirono il contatto tra arte e vita. Spesso questa tendenza a fondere vita e arte portò a un culto dell’arte come forma suprema di vita, come valore assoluto al quale tutti gli altri valori venivano subordinati: tale atteggiamento, che va sotto il termine di estetismo, rappresenta una delle connotazioni più tipiche del decadentismo. Alla morale eroica del superuomo, corrispose, in poetica, l’idea dell’arte come creazione dal nulla: l’instaurazione di nuovi valori era la molla che dava l’impulso alla condotta e al gusto. Si inseguirono orizzonti sconosciuti, rinnegando il passato e la tradizione: il poeta, libero da ogni legame con le consuetudini dell’esistenza quotidiana, poteva avventurarsi oltre i limiti stabiliti per l’uomo comune, ribellarsi a ogni norma, far violenza alla natura stessa; piaceri e tormenti, smarrimenti dei sensi e morbose voluttà, perversioni, squilibri di ogni sorta, divennero prerogative della sensibilità decadente, che cercava il suo appagamento nelle regioni imperie della <<vita maledetta>>, in quei settori indistinti e caotici dove non giunge la luce della coscienza. Un’estrema raffinatezza, indice d’un gusto saturo d’esperienze culturali, caratterizza la scelta degli argomenti: tra i periodi storici, si preferirono le età di barbarie o di avanzata e splendida decadenza; si collocarono i personaggi, esseri satanici o evanescenti creature smarrite e doloranti, in ambienti di estenuata mollezza, nel lusso più prezioso o nel più completo disfacimento. Da Poe e da Rossetti si attinse la sottile voluttà di indugiare in atmosfere lugubri e misteriose, e ispirate a Swinburne erano le diaboliche fantasie d’amore e di morte che tanto attrassero gli autori decadenti. La sensazione, avvertita con una sorta di esasperato misticismo, divenne il nucleo vitale della poesia; e la poesia non fu più concepita alla maniera classica, come armonica costruzione, ma tendeva a dissolvere la parola nella musica, il colore nello sfumato, l’architettura nell’atmosfera; non era un’entità conclusa, ma un indefinito ripetersi di risonanze, un affiorare d’ immagini evocate per forza di suggestione. Una profonda crisi nel concetto stesso di realtà, la sfiducia nelle possibilità della conoscenza razionale e del discorso scientifico di cogliere la realtà, conducono il decadente a sentire il mondo come mistero impenetrabile nella sua essenza, che solo si rivela all’intuizione mistica o alla folgorazione della visione poetica: mediante il simbolismo la poesia presenta in ardui simboli, che resistono a ogni spiegazione puramente concettuale, la realtà profonda che sta sotto i fenomeni e le apparenze. Rivelazione dell’inconscio e aspirazione alla musica sono le note dominanti nella poesia decadente; l’ansia del nuovo, il disdegno per l’antico e per il consueto ne sono i motivi animatori. Su tale fondamento comune si isolano con nitidezza la musicalità dolce e triste di Verlaine, l’efficacia analogica di Mallarmé, l’irruenza e la forza incisiva di Rimbaud. Non solo nella lirica (Laforgue, Samain, Rodenbach, Maeterlinck, Verhaeren, Jammes, Rollinat, Barrès, ecc.) il D. conseguì risultati duraturi, ma anche nel dramma (Maeterlinck) e, più ancora, nel romanzo (Huysmans, Villiers de l’Isle-Adam, Péladan, Lorrain, ecc.)

  • La diffusione del movimento fuori della Francia

Il movimento assunse ben presto portata internazionale. In Italia esso ebbe l’aspetto di un <<raffinamento sensuale>>: carattere peculiare del cenacolo di A. De Bosis, e nota dominante nel gusto e nella poesia di D’Annunzio che, nella figura di Andrea Sperelli, delineò l’equivalente di Des Esseintes del romanzo di Huysmans e nell’atteggiamento spirituale come nelle esperienze tecniche recò visibilissime le impronte di quell’estetismo che egli contribuì a diffondere sul piano stesso del costume e del comportamento sociale. Ma in D’Annunzio l’estetismo non fu solo il segno di un estremo raffinamento sensuale; esso rappresentò anche l’esaltazione, e l’imitazione nella parola, dell’esistenza come puro ritmo vitale, come musica di sensazioni ora intime e segrete, ora violente e fragorose. Nell’opera di Pascoli sono profondi i segni del D.: nella poetica del <<fanciullino>>, nella visione del mondo come mistero, nel gusto per le età di crisi e di decadenza, nel diffuso simbolismo della sua poesia. Il senso di un mondo di ideali e di forme che finisce e di una immedicabile stanchezza spirituale, espresso talora nelle forme aristocratiche e disincantate dell’ironia e della parodia, si ritrova nei poeti crepuscolari, quali Gozzano e Corazzini. Gli aspetti più strettamente tecnici della poetica decadente, l’uso di metafore inedite e di arditi accostamenti analogici, il ricorso al simbolo come strumento di conoscenza e rivelazione fantastica caratterizzano la poesia più valida fra le due guerre, quella dei cosidetti ermetici. Il D. influisce, insomma, su tutta la letteratura italiana dagli ultimi anni dell’800 sino alla seconda guerra mondiale, non limitando la sua efficacia al campo della poesia in senso stretto, ma estendendola al campo della narrativa (si pensi al romanzo di Fogazzaro), del teatro (il teatro pirandelliano) e a ogni altra forma di espressione letteraria. Derivazione diretta dal D. francese ebbe il movimento letterario che informò la cultura ispanico-americana alla fine del secolo scorso: il modernismo, promosso da Rubén Darìo, la cui poesia ebbe risonanza enorme anche nella letteratura castigliana. In Inghilterra, dove il D. si sviluppò sul terreno, particolarmente favorevole, della tradizione poetica da Keats e Poe a Swinburne e a Rossetti, la personalità che meglio assommò, nelle complicazioni intellettuali e nella cruda sensualità del temperamento e dei modi d’espressione, i motivi tipici della sensibilità decadente fu O. Wilde. In Germania, dopo Wagner e Nietzsche la cui influenza fu decisiva per il sorgere e il costituirsi della problematica decadente, le propaggini del D. si estendono da George a Rilke, a Hofmannsthal, a Schnitzler, per costituire la base morale delle sapienti analisi che Th. Mann ha esercitato sulla conformazione spirituale della società moderna. In Danimarca le principali individualità poetiche formatesi in clima decadente sono Jacobsen e H. Bang; in Svezia e in Norvegia, rispettivamente Strindberg e H. Kinck; in Polonia, Przybyszewski. In Russia, dall’allucinata morbosità di Sologub alla raffinatezza un po’ composita di Merežkovskij e al preziosismo di Remizov, l’influsso della poesia francese si impose sulle correnti tradizionali fino alla vittoriosa affermazione del D. e del simbolismo per opera dei poeti Bal’mont, Brjusov, Ivanov, Blok.”

[Di Angelo Jacomuzzi e Bice Mortara Garavelli]

Sugli autori dell’articolo:

Angelo Jacomuzzi (Novi Ligure, 30 giugno 1929-Torino, 3 novembre 1995) ha insegnato per anni Storia della Critica Letteraria all’Università di Torino. I suoi saggi, non raccolti in volume (su Petrarca, Leopardi, Foscolo, la poesia del tardo romanticismo, Erba, Luzi ecc.), abbracciano varî periodi ed autori della nostra letteratura. In volume, ha pubblicato i fondamentali studi su Dante: L’imago al cerchio. Invenzione e visione nella Divina Commedia (Milano, Silva, 1968) e Il palinsesto della retorica e altri studi danteschi (Firenze, Olschki, 1972), nonché il non meno fondamentale studio su Montale: La poesia di Montale (Torino, Einaudi, 1968; nuova edizione: La poesia di Montale. Dagli «Ossi» ai «Diari», ibidem, 1978). All’opera poetica dannunziana ha dedicato, poi, la monografia: Una poetica strumentale: G. d’Annunzio (ibidem, 1974). Ha pubblicato anche due plaquette di poesia: Critica in versi, Bergamo, Il Bagatto, 1980, e La grotta d’Elia, Torino, L’arzanà, 1980.

Bice Mortara Garavelli (Montemagno, 18 maggio 1931) è una linguista italiana, studiosa di grammatica e retorica. Si diplomò nel 1950 al Liceo Classico “Plana” di Alessandria, per poi laurearsi in Lettere classiche nel 1954, all’Università di Torino, dove fu allieva del glottologo Benvenuto Terracini. Dopo alcuni anni passati insegnando in varie scuole medie e Licei, passò nel 1972 all’Università di Torino, dove divenne docente ordinario di Grammatica italiana. Già socia corrispondente dal 1991, dal 1995 è accademica ordinaria della prestigiosa Accademia della Crusca ed è membro dell’Accademia delle Scienze di Torino. Per la Casa editrice Einaudi ha collaborato al Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica (Torino, 1994), diretto da Gian Luigi Beccaria. Si è occupata di linguistica testuale, di linguaggi settoriali, di stilistica linguistica e letteraria e di retorica, attraverso una lunga serie di apprezzate pubblicazioni. Nel 2002 le è stato dedicato il libro La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, a cura di Gian Luigi Beccaria e Carla Marello (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002).

I Romani della decadenza di T. Couture, 1847